Un ricordo di Randolfo Pacciardi

di Andrea Sirotti Gaudenzi
(tratto da "La Voce Repubblicana" del 9 febbraio 2019)


Vent’anni fa ebbi modo di ricordare il centenario della nascita di Randolfo Pacciardi sulle colonne del quotidiano «Il Foglio», grazie all’attenzione di un uomo lucidamente controcorrente come Giuliano Ferrara. Oggi, poter scrivere di Pacciardi su una testata mazziniana come la «Voce» mi sembra il miglior modo per rievocare questo grande uomo. Perché, bisogna ammetterlo, non sempre Randolfo Pacciardi è stato compreso dai suoi compagni di militanza repubblicana, che sembrano aver riabilitato troppo tardi la figura di questo tenace e schietto toscano, dall’eloquio raffinato e dalle profetiche visioni.

Del resto, il pensiero di questo grande uomo mi è noto perché, amico di mio nonno e di mio padre, frequentava casa mia in anni in cui parlare di una «Nuova Repubblica» aveva ancora un senso vagamente «rivoluzionario».

Grande oppositore del regime fascista, nel 1926 fu costretto a lasciare l’Italia. Seppe distinguersi nella lotta al franchismo e in America diresse l’«Italia libera». Segretario del P.R.I. (per acclamazione) nel dopoguerra, vicepresidente del consiglio nel governo De Gasperi, ministro della difesa dal 1948 al 1953, si oppose con tutte le forze alla partitocrazia che, già agli albori della storia repubblicana, aveva infettato il sistema democratico. La sua non era aprioristica opposizione ai partiti, ma opposizione a quel regime che, mascheratosi dietro il cinico paravento del rispetto della volontà popolare, dava già segni di fallimento. Del resto, il malumore di chi aveva combattuto per la libertà era presente anche negli scritti di Gaetano Salvemini, fondatore della «Mazzini society», il quale dichiarava che «i democratici sul serio avrebbero dovuto resistere al fascismo, ma anche combattere con altrettanta intransigenza gli pseudodemocratici».

Pacciardi era giunto alla conclusione che le istituzioni del Paese si fossero dimostrate «assolutamente inefficienti come quelle della monarchia parlamentare». In particolar modo, contestava che «questa strana Repubblica» avesse trasformato i presidenti in veri e propri «re costituzionali», rendendoli comunque istituzionalmente irresponsabili della maggior parte delle proprie azioni.

Mi piace ricordare che Pacciardi fu fondatore nel 1964 dell'Unione Democratica per la Nuova Repubblica, per propugnare le tesi presidenzialiste, trovando moltissimi adepti, soprattutto in Romagna (tra i quali Colonelli, Mambelli, Spallicci, Boni e Montanari), ma pagò a caro prezzo l’opposizione al sistema: fu oggetto di un pesante ostracismo anche da parte di tanti (ex) amici dello stesso partito che aveva amato e che, solo pochi anni prima della sua morte, lo «riabilitarono», chiedendogli di rientrare nella casa dei repubblicani. Forse, però, era cambiato l’ambiente politico che Pacciardi aveva conosciuto nell’immediato dopoguerra, quell’ambiente dove si respirava un sano patriottismo, dove era ancora vivo l’insegnamento di Mazzini, dove tanti antifascisti avevano trovato la naturale collocazione, dove il vuoto pensiero ateo e materialista dei marxisti veniva combattuto con il laicismo, con la religione dell’Uomo, con il rispetto delle diversità. Eppure, questo «repubblicano storico», come amava definirsi, non poteva rassegnarsi, non poteva darsi per vinto, ispirato dall’amor di Patria che aveva ereditato da Mazzini, da quell’uomo che, come scrisse lo stesso Pacciardi, «giganteggia sui piccoli e anche sui grandi uomini della sua età».


8 settembre. Alla ricerca di un'identità nazionale grazie allo spirito romagnolo

I 75 ANNI DI UN ANNIVERSARIO
di Andrea Sirotti Gaudenzi
(tratto dal "Corriere di Romagna" dell'8 settembre 2018)

Ci risiamo.
Ogni volta che si avvicina la ricorrenza di una data che ha segnato la storia di questo Paese, ci si interroga sull’identità nazionale italiana. E, beninteso, l’otto settembre è ritenuto ancora da molti il giorno della vergogna, perché consacrò la doppiezza, l’ignavia e la incompetenza di una intera classe dirigente. Quanto seguì all’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile, letto da Pietro Badoglio l’otto settembre 1943, unito alla fuga del re a Brindisi, diede vita alla pagina più difficile della nostra storia recente, sino a minare fortemente il sentimento nazionale.
Le conseguenze furono note: il tricolore fu per anni tenuto sotto naftalina, agitato solo in occasione di eventi sportivi e spesso, troppo spesso, si confuse l’orgoglio patrio con un passato di cui vergognarsi.
È mai esistita una identità nazionale?
«Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani» è la massima (attribuita a Massimo d’Azeglio) che ha accompagnato, sconsolati, alcuni fautori dell’unità nazionale, al brusco risveglio che segue il superamento dell’ebbrezza delle belle parole dei più illuminati spiriti del Risorgimento.
Non erano forse gli italiani che, tutti assieme, volevano la libertà dallo straniero e volevano ritrovarsi uniti? «Dall'Alpi a Sicilia Dovunque è Legnano» recita l’inizio della quarta strofa dell’Inno nazionale. L’esempio del protomartire del Risorgimento, il cesenate Leonida Montanari, aveva animato i giovani d’Italia. Giuseppe Mazzini veniva indicato come il Maestro da seguire. Le gesta di Giuseppe Garibaldi erano da tutti acclamate.
Questo ci riportano i libri di storia, spesso offuscati dalla ricostruzione di fatti, avvalorati da cronache semidimenticate capaci di macchiare il ricorso delle gesta eroiche degli uomini in camicia rossa. Sono cronache che raccontano di una unità “imposta” da una casa reale (i Savoia) meno illuminata di tanti altri principi e regnanti presenti sullo Stivale. Sono cronache che indugiano sulle gravi violenze cui furono sottoposte le popolazioni del Mezzogiorno. Sono cronache che riferiscono di una unità in larga parte condizionata da altri Paesi, convinti di poter esercitare l’influsso politico (ed economico) su un’Italia non ancora investita dalla rivoluzione industriale.
E sia. Tuttavia, la retorica risorgimentale, quella - tra l’altro - esaltata dal libro Cuore, resta uno degli elementi più forti della nostra identità nazionale, che paradossalmente viene ben rappresentato da un piccolo grande film diretto dal romagnolissimo Paolo Cevoli, dal titolo «Soldato semplice»: un piccolo film perché, nella società del consumismo, le pellicole si valutano sulla base degli incassi (purtroppo, in questo caso, assai modesti); un grande film, perché Cevoli è in grado di rappresentare al meglio l’animo umano di un italiano medio coinvolto nel conflitto che portò l’Italia al completamento dell’unificazione, con la liberazione di Trento e Trieste.
Paolo Cevoli interpreta il maestro Gino Montanari, che, accusato di essere anarchico, viene inviato al fronte della Prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto. Il protagonista si troverà così catapultato in un piccolo mondo fatto di altri soldati provenienti da ogni parte d’Italia, che mostreranno al meglio tutti i lati tipici dell’umanità: debolezze, bassezze, paranoie, slanci eroici. E proprio al maestro Gino Montanari viene riservato il più eroico dei momenti di una trama tutt’altro che superficiale e degna della migliore sceneggiatura, che permette di intrecciare la vita di uomini provenienti da ogni angolo del Bel Paese.
Gino Montanari è il maestro che lancia fuori dalla finestra il libro «Cuore» davanti alla sua classe, dissacrante a tal punto da definire un «patacca» la piccola vedetta lombarda, di fronte a un gesto di sommo sacrificio dileggiato dall’animo anarchico (così diffuso in Romagna) dell’insegnante. Ma quell’eroicità, tanto esorcizzata, avvolge il protagonista della pellicola, facendo prendere forma a un sentimento nazionale, che si identifica qui con il senso dell’umanità, che ben si sposa con le passioni tipiche dei romagnoli.
Questo, forse, è l’elemento più rilevante dell’identità nazionale italiana: il forte senso di umanità che non traspare semplicisticamente dal senso del focolare domestico, dalla tipica presenza materna, dal mandolino e dagli altri stereotipi dell’italianità imposti da altre nazioni, forse un po’ invidiose di un passato così glorioso come il nostro. Il forte senso di umanità si è costruito, nelle nostre genti, dopo che, assorbito e sviluppato l’esempio greco e sintetizzato l’insegnamento cristiano, siamo stati in grado di creare cultura, arte e bellezza come nessun altro al mondo, anche grazie a una capacità (unica) di cogliere il meglio di quanto venisse dall’esterno.
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto» scriveva Terenzio. Quell’humanitas che caratterizzò il Circolo degli Scipioni si rivide nella redazione degli statuti comunali, nell’affermazione delle arti liberali, nella creazione delle corporazioni medievali, nello sviluppo del sentimento patriottico risorgimentale.
Il motto (mazziniano) «Dio, patria e famiglia» recupera quello spirito, acquisita la lezione di Hegel e superati i paradossi dell’idealismo.
Ma quell’humanitas si vide anche nella realizzazione della più evoluta Costituzione del mondo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e, nella creazione, sotto l’impulso di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli (forti dell’eredità morale di Giuseppe Mazzini), delle basi che portarono alle istituzioni europee.
Italiani brava gente, quindi? Non mi sbilancerei troppo, anche per non riaprire pagine (comunque terribili) della nostra storia, ma italiani capaci di ritrovare fratelli nei loro simili, questo sì. E il piccolo grande film del romagnolo Cevoli serve proprio a capire questo: un’identità, la nostra, tanto più forte quanto più ancorata a valori universali e di cui - questo è certo - non possiamo e non dobbiamo vergognarci.